
20 Dic Sorridiamo dell’irrealtà dei sogni! Eppure…
Il tema del sogno attraversa la matassa delle culture e l’ordito del tempo, tonalizzandosi in una grande varietà di esperienze e prospettive: è rivelazione, oracolo o presagio di eventi futuri o ancora, incontro con la divinità per intuirne la volontà o per carpirne una guarigione; è nostalgia e dramma personale, sentiero di conoscenza o sospetto di menzogna. Esperienza comune ma personalissima, nodo e visione da interpretare anche se mai oggettivabile e del tutto afferrabile, il sogno c’impatta, in primo luogo, perché a suo modo ci costringe a fare i conti con la nostra passività rispetto ad alcuni vissuti, nei quali sentiamo che c’è qualcosa che sfugge alla nostra presa e alla tentazione di controllo e pur nella destabilizzazione che ci arreca, cela una realissima esperienza di novità e una tensione vitale che spinge a muoverci. Ciò che non controlli, ciò che non decidi tu ma si affaccia allo sguardo come sogno e accesso creativo ti trascina la vita.
Ne L’idiota, Dostoevskij scrive: «Sorridiamo dell’irrealtà del sogno e nello stesso tempo sentiamo che nell’intreccio di tutte queste assurdità si racchiude un pensiero particolare, ormai reale, appartenente alla nostra vita presente, che esiste e che è sempre esistito nel nostro cuore; sembra che il sogno ci abbia trasmesso qualcosa di nuovo, di profetico, di atteso; l’impressione provata è forte, è gioiosa o tormentosa, ma in che cosa consista di preciso e che cosa abbia trasmesso non si può né capirlo né ricordarlo».
È questo che sperimentiamo quando sogniamo o quando al risveglio ne percepiamo i frammenti. Li rammemoriamo ilari perché ci appaiono realissimi seppur radicalmente altri rispetto alla quotidianità che ci abbarbica alla visione dell’ora e c’inchioda spesso al razionale comunemente inteso come l’opposto del sogno, secondo una lettura fin troppo dualistica. Ma davvero il sogno è altro dalla nostra realtà? Eppure, c’è qualcosa del sogno che trasuda di vita e tocca delle corde segrete dell’io riportando al cuore un vissuto, accendendo desideri dell’oggi, trascinandoci nel futuro inedito, anche quando fugge nella veglia e ci lascia solo un sentore sfumato di felicità o perplessità.
Un altro interessante tassello drammatico e commovente ce lo regala sempre Dostoievskij nel suo affascinate Le notti bianche, che altro non sono che le memorie di un uomo teso su una corda tra notti di sogni creativi, in cui tutto è possibile, e la nuda realtà.
Il sogno è per il protagonista, come per molti di noi, un fermento di vita, anzi della vera vita; esso è capace di portare pienezza e libertà all’ordinario, per lui cadenzato da grigiore e solitudine, donando la possibilità di mettere le mani su ciò che accade e di condurre il suo disegno di vita; è un cantuccio di ideali di cui innamorarsi, è il sogno a rendere cari luoghi e incontri, dando loro una luce e un calore particolari. Il sogno descritto dall’autore, pur nella sua vivace indeterminatezza, sostanzia l’esistenza ma la rintana in un forziere, illude che la notte sia una casa; ma un autentico sognatore è consapevole che, quando ancora non sa, arriverà il mattino in cui la realtà lo raggiungerà e pregherà di poter cedere tutte le sue notti bianche e sognanti in cambio di attimi di vita vera!
Ma in realtà, ciò che cambia e illumina la vita del protagonista non è tanto o non è solo la prigione dorata dei suoi sogni, ma l’incontro con la giovane Nasten’ka, uragano di vitalità e possibilità d’amore. Lei sa cos’è un sogno, ma è fortemente abbarbicata alla realtà, ha avuto il coraggio di abbracciarla e di crederle. Nasten’ ka ha avuto il coraggio di abbattere un muro e creare un ponte tra i suoi sogni e la realtà.
Il risveglio del nostro sognatore sarà brusco e doloroso, pur tuttavia ci consegna delle suggestioni feconde. Innanzitutto, è l’amore, in definitiva, a dare carne ai nostri sogni. È l’amore che nei passi incerti della vita ti chiede: “Dove sono i tuoi sogni? Stai vivendo o no?” Rinunciare al sogno perché illusione a breve termine, sintomo di un’utopia irrealizzabile è incominciare a morire da vivi, è paralizzare il potenziale di pienezza che sei.
È la promessa d’amore racchiusa nei sogni che conserviamo al risveglio, ci ricorda Nastenka, ed è per questo che vorremmo che alcuni di essi non finissero mai e ci sono poi alcune circostanze in cui vorremmo affrettare il mattino per dargli corpo. E quand’anche il velo di idealità svanisse, mai il sogno, perde la sua valenza di promessa; e infatti, resta solo il nostro amico sognatore, ma l’amore che ha accompagnato il suo risveglio alla realtà, ha impresso ancor più, la beatitudine che il sogno ha recato alla sua vita. Ed è proprio questo che resta del sogno capace di attraversare tutta un’esistenza, una promessa di benedizione che risuona nelle parole finali del libro: «Che il tuo cielo sia sereno, che il tuo sorriso sia luminoso e calmo! Sii benedetta per quell’attimo di beatitudine e di felicità che hai donato a un altro cuore, solo, riconoscente!» Dio mio! Un minuto di beatitudine! È forse poco per colmare tutta la vita di un uomo?
Il sogno, poi, ci provoca nel coraggio: per sognare davvero si devono aprire gli occhi e accettare le notti. Sì, perché il sogno non è un idillio senza conflitti e non è una fuga dal mondo, al contrario essa è una corsa nel mondo, fino al suo centro, fino alle sue istanze rinnovatrici, di notte, quando tutto di noi sembra immobile. E allora occorre aprire gli occhi in profondità perché il sogno è elaborazione di una dimensione simbolica e viscerale della vita che chiede di essere vista, perché non è altro da noi; lo diceva Shakespeare poeta sognatore: «Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti sogni» (W. Shakespeare, La tempesta). È questo il fascino e l’alone di mistero dei sogni: noi gli assomigliamo e siamo il sogno di qualcuno; siamo intessuti d’incertezza ma impastati di speranza. Ed è questo il filo rosso che attraversa l’età moderna con una cadenza dolente: si ha il dubbio che ciò che si manifesta non abbia sostanza e sia il prodotto fantasioso e ingannevole della nostra mente. È questo che si chiederanno Shakespeare o Calderón della Barca che scoprirà quanto i nostri sogni sono tessere di mosaico di un sogno-progetto più grande, che i sogni ci accompagnano nella misura in cui lasciamo che essi ci guidino ad un uso sapiente del nostro tempo rapido. Il sogno sarà indagato poi da Cartesio quando nella prima meditazione del suo itinerario metafisico confronterà il suo estremo e disperato desiderio della garanzia del vero con la constatazione che ciò che sperimentiamo con i sensi resta in dubbio perché indifferentemente vero sia nel sogno che nella veglia. Eppure anche nel sogno c’è qualcosa che resiste al dubbio; peccato che questo residuo sia per lui, solo l’io, sostanza pensante.
Sarà Freud, a farci sospettare che il sogno sia qualcosa di più e cioè la manifestazione del nostro desiderio, l’accensione rivelativa per conoscere e conoscerci. È di questo che ci avverte il sogno: da te, dai tuoi desideri, dalla tua spinta a nascere e rinascere non puoi fuggire; ecco, allora, che sognare non significa tanto guardare il cielo, ma portare il cielo nello sguardo, come evoca il quadro di Magritte, lasciarci sorprendere da uno sguardo altro, perché il sogno è quella porzione di vita che ti sfugge da tutte le parti ed è lì che la tua passione si manifesta.
Esistono poi sogni di protesta, contro la violenza che schiaccia o le catene della rassegnazione di visioni asfittiche, quando, cioè, facciamo dei nostri sogni una forza trasformatrice che sospinge la vita personale ma anche quella degli altri. I nostri sogni non sono percorsi solitari, spesso s’intrecciano a quelli altrui, e dare corpo ai nostri sogni diventa spesso realizzazione di sogni comunitari; talvolta ci troviamo a sognare per chi ha ceduto alla disillusione e crede che schiacciati sull’unica dimensione del razionale saremo liberi dai risvegli dolorosi. E allora, i nostri sogni chiedono di essere visti e ci invitano ad essere custodi di chi addormenta il sogno e chiude gli occhi all’istanza di speranza di cui è portatore. Sognare con altri è la garanzia che non crediamo nei miraggi e delle spente rassegnazioni, ma nella forza della profezia.
Sogno e speranza sono i due movimenti dell’esistenza: sistole e diastole di chi vive l’oggi gettando ancore nel non ancora del desiderio. Su loro prezioso legame ha scritto Bloch che le connota come «atto orientativo». (Bloch, Il principio speranza) La speranza è un sogno ad occhi aperti, sogno anticipante, ponte tra il già e il non ancora, se abbiamo il coraggio di guardarli abbastanza.
Portare il cielo nello sguardo, aprire gli occhi, dicevo. Sì, perché il sogno si nutre di piccole cose, dei granelli dell’ordinario che diventano segni di un sogno più grande, di un orizzonte aperto che ad ogni passo ci ricorda che ciascun uomo è un itinerario di possibilità.
“Diventa il sogno che sei”, questo significa sognare ad occhi aperti e discernere la propria possibilità più propria. In questo senso, il nostro sogno più bello incomincia quando ci svegliamo.
Certo, non è facile. I sogni sono reali quando sono rivelatori anche dei rovesci delle cose.
Sono talvolta dolorosi perché ci rimbalzano la trama complessa che esiste tra possibilità e limite, perché ci fanno vedere come siamo e come potremmo essere.
E poi, se è vero che solo l’eternamente giovane di cuore può sognare, chi, cioè, non ha lo sguardo sfinito, è vero anche che i sogni sono lenti e non hanno i tempi che vorremmo. “Fino a quando resterai solo un sogno?”, chiediamo impazienti. Ma i sogni sono in-attuali, innescano processi che magari non vedremo compiersi e ci educano a non essere impazienti per indefiniti momenti propizi, ma a riconoscere i Kairoi che riempiono l’esistenza.
I sognatori sono coraggiosi, perché il sogno può essere deriso, lo ha sperimentato anche Nietzsche folle, realistico sognatore: «Quelli che ballavano erano visti come pazzi da quelli che non sentivano la musica». Talvolta, poi, il sogno è assurdo e spesso ha realizzazioni imperfette, tutt’altro che ideali. Dare carne ai sogni significa che la promessa da essi evocata ti chiede di affrontare il diverso da te, di vederlo concretizzarsi non nelle fattezze che immaginavi. E quante volte, nel rincorrere la perfezione dell’idillio non scorgiamo i segni del compimento del sogno!
I sognatori sono coraggiosi non tanto perché sono disposti a lottare per il loro sogno, ma soprattutto perché imparano l’arte della resa fiduciosa al sogno che li convoca e realizza, che li attraversa in ogni fibra e li supera infinitamente.
Il sogno, allora, è forse già l’origine di un compimento, non è il contrario della nostra storia o della realtà. Tu hai un sogno e ardi di desideri, ma cammina nel mondo, con la consapevolezza di essere il sogno di qualcuno. Come potrò vivere all’altezza dei miei sogni, da dove posso incominciare?
I sogni ci liberano dalla presunzione di poter fare tutto da soli, ci provocano a credere che spesso la chiave che ci consente di conoscerci e di rispondere in pienezza a ciò che siamo chiamati ad essere, ci abita nel desiderio, ma ci viene donata e non dipende solo da noi. I sogni, forse, non devono essere necessariamente e interamente realizzati, ma ascoltati con cura, non vanno soddisfatti o affrettati perché sono promesse, non bisogni, ti sono dati perché ti orientino e prendano forma, artigianalmente, scommettendo ogni giorno su ciò che sei e sul meglio che puoi essere.
Eleonora Palmentura
Facoltà teologica pugliese