Affacciati al finestrino, col vento sulla faccia

Affacciati al finestrino, col vento sulla faccia

La richiesta che mi arriva è di quelle che ti costringono a fermarti. Preziosa, per questo. La mia realtà, quella di semplice essere umano, è talmente piena di traiettorie che s’intersecano che, molto più di talvolta, non riesco neppure a vederla. Figuriamoci a guardarla. Ma sempre devo farci i conti, perché ogni volta che non lo faccio, lei crolla inesorabilmente. È allora però, nella difficoltà dell’inciampo, che mi sorprendo ad ammirarla. Che complesso intreccio di relazioni, vite, fatiche,
piaceri, incertezze, lontananze, amore, distacchi, ricordi sfumati! È bellissima e in continuo divenire.

Faticosa: devo tenerne insieme i pezzi, altrimenti si dissolve. E se è vero che nessuno ne soffrirebbe forse, lo è altrettanto che ne soffrirei io. Perché, per quanto non sia mai in equilibrio, in fondo lei è una seducente consuetudine. Continuamente si sbilancia, come affacciata da un treno in corsa (di quando c’erano ancora i finestrini da cui ci si poteva sbilanciare). Ha il vento sulla faccia la mia realtà; e gli occhi semichiusi. Sempre in bilico sul crinale dell’immaginazione. È ambigua; è relativa.
E la radice è la stessa: è relativa la (mia) realtà. Sul dizionario c’è scritto che in senso astratto è la qualità di ciò che esiste in sé e per sé concretamente. Un meraviglioso ossimoro. Come possono convivere astratto e concreto?

Eppure io di questo paradosso ho fatto il motore della mia vita. Che è teatro.

Vivo di teatro e, per definizione, il teatro si regge proprio su questo paradosso, sempre in bilico tra realtà e finzione. Cominciai a fare teatro per caso, in uno dei primi anni universitari. E ricordo con precisione il momento in cui decisi che il teatro sarebbe diventata la mia realtà. Stavamo facendo un esercizio in coppia, un’improvvisazione di movimento e per la prima volta mi accorsi di “avere le mani”. Non le avevo mai guardate così. Erano diverse da come avevo sempre pensato che fossero e potevano fare cose che neppure immaginavo. Avevo soltanto spostato il mio punto di vista e adesso avevo un “nuovo” paio di mani. Scoprii lo stupore. Non è difficile provare: rivolgetevi a qualcuno che conoscete proprio bene, qualcuno che amate, e chiedetegli di restare fermo e di lasciarsi guardare per un po’. Ammirate i suoi tratti conosciuti e cari. Poi cominciate a muovere il vostro sguardo, a spostare la traiettoria: guardate un po’ più da destra, un po’ più da sinistra, poi da sotto e così via, accentuando sempre di più gli spostamenti. E registrate il mutare della vostra percezione al mutare della direzione dello sguardo, senza pre-stabilirla. Accogliete quello che vi arriva. È sorprendente come quello che pensiamo ‘noto’ sia differente. È solo un esercizio fisico, meccanico: eppure riesce a trasformare la percezione che abbiamo della realtà. E senza contraddizioni, perché la persona che state guardando è viva, lì nello stesso vostro tempo e spazio.
Reale.

Eppure differente adesso.

Quando si racconta una storia tra narratore e ascoltatore si stabilisce un patto segreto, non detto: io credo a quello che racconto, tu a quello che ascolti.
Entrambi pronti ad accogliere. Poi sono parole e corpo che cominciano a costruire immagini. E queste sgorgano nitide e popolano la sala. Chi racconta “vede” quello che racconta, proprio lì in quel momento, davanti a sé, reale. Ma se può farlo è perché c’è qualcuno lì in sala che è pronto ad accogliere quelle immagini, a dar loro forme, colori e volti che in qualche modo già gli sono noti e che ora l’ascoltatore ri-conosce e guarda con occhi nuovi. Reali, vive in quell’istante. E ciò che le rende reali è proprio l’incontro di quei due punti di vista: quanto più la traiettoria è nitida, tanto più le immagini sono reali. Reali, non nella loro concretezza, che sfugge naturalmente alle regole della fisica, ma nella loro astrazione. Reali nella condivisione di quel momento. Così, in quell’incontro di umanità che è ritrovarsi ad ascoltare una storia, prende forma una realtà altra, diversa. Capace di stupirci. E lo stupore crea nuova realtà. Ma, lo avete visto, perché questo avvenga è necessario uno sforzo, uno spostamento. Non ci si può accomodare sul conosciuto. La realtà, a teatro come nella vita, ci costringe a stare scomodi, in continuo movimento.

Affacciati al finestrino, col vento sulla faccia.

E genera stupore.

Enrico Messina
Autore e regista
Responsabile Armamaxa