Essa ti custodirà!

Essa ti custodirà!

I termini “custodia” e “custodire” sono centrali nelle Scritture, rimandando a un’azione che ha vari agenti e oggetti. Il primo agente è Dio stesso, di cui si dice a più riprese che custodisce il suo popolo, direttamente (cf. Sal 97,10) o tramite il suo angelo (cf. Es 23,20) o i suoi profeti (cf. Os 12,14). Dio ci custodisce come la pupilla dei suoi occhi, si dice nei salmi (cf. Sal 17,8). E Gesù chiede al Padre che custodisca i suoi discepoli dal maligno (cf. Gv 17,11).

Il secondo agente è l’essere umano, cui la Scrittura chiede di custodire i comandamenti del Signore (cf. Es 16,28), la sua alleanza (cf. Dt 33,9), le sue parole (cf. Sal 119). Perché da questo riceva la vita (cf. Pr 4,4; Gv 8,51).

Nel primo movimento, l’immagine della custodia è più evidente: Dio ci custodisce, cioè si prende cura di noi. Nella seconda, siamo più portati a vedere la custodia nel suo significato di “osservanza”. E infatti, sia in ebraico (shamar) sia in greco (teréo), un medesimo verbo indica quelle che noi siamo portati a intendere come due azioni distanti tra loro, “custodire” e “osservare”, che invece nelle lingue bibliche sono espresse da un medesimo verbo.

Ma proprio la complessità semantica dei due termini e l’intreccio delle due prospettive che le Scritture ci propongono, rivelano la dinamica della custodia: si custodisce per essere custoditi.

Osservare allora non ha nulla di legalistico, ma significa “tenere presso di sé”, per “essere tenuti”. Tenere presso di sé la Parola del Signore, per essere da essa custoditi.  È così infatti che il Signore può custodire le nostre vite: attraverso il nostro custodire la sua Parola.

Egli dimora presso di noi e in noi, nella misura in cui noi lasciamo che la sua Parola dimori in noi. Così si realizza ciò che soprattutto la tradizione sapienziale afferma della Sapienza: “Non abbandonarla, ed essa ti custodirà; amala, ed essa ti proteggerà” (Pr 4,6).

 

Sabino Chialà

monaco di Bose