
13 Mar La realtà…non mi piace!
In ‘realtà’, quando mi hanno chiesto di dire qualcosa su questo tema, ho pensato subito che avrei preferito scrivere su un’altra parola. ‘Realtà’ non mi piace. E, lo so, “la realtà è superiore all’idea” (Evangelii gaudium, 233); questo ci è stato consegnato come un principio fondamentale. Ma resta qualcosa che non mi convince. E, lo so che l’etimologia latina di ‘reale’ rimanda a ‘regale’ (res / rex) e quindi di nuovo a qualcosa che è “superiore rispetto alle altre specie”, e, se andiamo fino al sanscrito (rāḥ) troviamo la radice originaria del termine significa addirittura “ricchezza, possesso, bene”. Ma non mi convinco lo stesso. E, lo so che filosoficamente già dal Medioevo ‘realtà’ è un termine che rimanda all’individualità concreta, contro l’astratto (che rischia di perdersi sempre nei fumi della generalità), e che, oggi, con il cosiddetto “nuovo realismo”, c’è una rivincita del ‘reale’ rispetto al pensiero debole e a tutti quanti ritengono che “non esistano fatti senza interpretazioni”. Ma non mi convince lo stesso. Ma non per ragioni filosofiche o scientifiche. Per una ragione molto più banale e del tutto soggettiva. Perché mi guardo intorno… e la realtà non mi piace. Vedo “le ombre di un mondo chiuso”, in cui “certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti”. Vedo “dignità disconosciute”. Vedo che “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi (…) aggressivi”. Vedo “nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale” e vedo che “spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente” o degli ultimi, dei fragili, dei migranti, dei più poveri “sono messe a tacere o ridicolizzate” (Fratelli tutti, 1; 22; 11; 17). Vedo che ai miei amici diversamente abili e alle loro famiglie non è arrivato ancora il vaccino, e sono chiusi in casa da un anno, e non se ne preoccupa nessuno, perché ‘loro’ non sono produttivi. Vedo giovani bravissimi che non trovano lavoro. Vedo che l’educazione, la cultura viene spesso considerata solo in termini di “capitale umano”. E credo sia inutile allungare la lista. Perché lo vediamo tutti che la realtà non va. Non chiedetemi, allora, di fare l’elogio della realtà. Se non fossi convinta che domani può essere migliore di oggi, non starei qui a scrivere. E voi non stareste qui a leggere.
Da tempo ormai il mio motto (da Beautiful mind, bellissimo film!) è: “Ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile”. Non ho bisogno di credere nella realtà, ma in qualcosa che possa superarla, innalzarla, farla passare da un ordinario che ci morti-fica e soffoca, ad un orizzonte più vasto. Ho bisogno di un “di più”. E continua, perciò, a convincermi – contro ogni mero realismo – l’affermazione di quel pensatore che diceva “più in alto della realtà si trova la possibilità” (Heidegger, Essere e tempo). E credo che, in fondo all’esistenza di ognuno di noi, sia scritto questo.
E perciò non mi piace la retorica della resilienza (che spesso diventa, malgrado tutte le buone intenzioni, la retorica del: impariamo a sopportare, ad accettare, a stare nelle cose come sono, a sotto-metterci al reale, a ciò che accade e non dipende da noi, al destino, e magari alla “volontà” di Dio).
E non mi piace nemmeno la retorica della resistenza, se non è finalizzata ad un movimento, ad un cambiamento. No alla resistenza “stoica”, per la quale c’è un fato che ti trascina, e l’unica cosa che puoi fare è “starci” dentro docilmente, altrimenti ti travolgerà (“ducunt volentem fata, nolentem trahunt”, Seneca). Un’altra cosa è, invece, la resistenza che si è vissuta storicamente – e in tante parti del mondo ancora si vive – per la liberazione. Non necessariamente cruenta.
Senza voler risalire a Gandhi, abbiamo tutti in mente le immagini recenti della suora Nu Thawng, inerme, che si inginocchia non davanti ad un altare, ma davanti alle forze di sicurezza, in Myanmar, supplicandole di non aprire il fuoco sui giovani che protestavano e resistevano pacificamente, per il ‘bene’ loro e del loro paese: perché quella ‘realtà’, così, non va.
Resistiamo autenticamente solo se e perché qualcosa “geme e soffre” ed “è in catene” e tocca anche a noi liberare questo mondo. Resistiamo anche quando ci pare che non possiamo fare nulla, solo perché continuiamo a coltivare la speranza (che in noi è inconscia certezza) che, quello che non possiamo fare oggi, lo faremo domani. Resistiamo perché continuiamo a credere che, in ogni caso, c’è la possibilità di migliorare, la possibilità di un “di più”. La tensione al meglio è radicale nell’umano. Saremmo ancora all’età della pietra se più in alto della possibilità si si trovasse la realtà.
E, però. C’è un però. O comunque c’è un perché. Perché sto dicendo queste cose? Perché questa accorata (e forse anche retoricamente esagerata) critica alla realtà? Perché dall’inizio ho scritto “non mi piace”, “non mi convince” (volutamente in prima persona)? Perché sono “fatta” così. Questa è la mia “realtà”.
“Divieni ciò che sei!” – diceva il poeta Pindaro (e non a caso questo motto è stato ripreso lungo i secoli dalle prospettive più diverse: dall’ateo Nietzsche come da monsignor Mariano Magrassi – per citare solo due nomi a me cari).
Io divengo ciò che sono. Annalisa è questo. Questa scommessa sullo straordinario, questa incapacità di accontentarsi e stare nelle cose come sono. E questo mio essere (questa mia realtà) ha segnato la mia storia (il mio destino o la mia vocazione – a seconda di come ci piace dirlo). Ha segnato le mie scelte lavorative (e continua a segnarle), le mie scelte sociali, politiche, pastorali (e continua a segnarle). Le mie relazioni (lo sanno i miei ‘poveri’ amici e le persone a cui voglio bene, che ‘costringo’ sempre verso il ‘di più’). Ha segnato mie battaglie sempre perse contro i mulini a vento. Il mio tentativo di resistere con i fragili e i sofferenti (non perché sono brava, ma perché la vera forza la traggo da loro). E anche il mio modo di essere rispetto a Dio (penso all’icona della donna Cananea, che riesce a far cambiare idea perfino a Gesù).
E, allora, sì. Diveniamo ciò che siamo. E ciò che siamo è la nostra realtà. E, allora, sì. Si può fare un elogio della realtà. Dipende da cosa intendiamo con questo termine. E da cosa intendiamo per “accettare” la realtà. Se si tratta di accettare quella/o che sono per “crescere”, per diventare sempre più ciò che sono, allora sì. Se si tratta di accettare anche la realtà della pandemia e attraversarla senza false illusioni (andrà sicuramente tutto bene) ma anche senza farsi schiacciare (e lavorando perché da questa crisi si possano trarre elementi per migliorarci, tutti e ciascuno), allora sì.
Freud diceva che è fondamentale il “principio di realtà” (ananke, necessità): il principio che, davanti a ciò che desideriamo, ci riporta con i piedi per terra. E ci ricorda che siamo ‘finiti’, fragili, limitati. Che non siamo tutto e non possiamo tutto. Ed è necessario modificarci, per adattare quello che siamo (e vogliamo) a ciò che di fatto si dà intorno a noi. Ma lo stesso Freud ricordava che, alla fine, quello che ci aiuta a sopravvivere, ad andare avanti, contro ogni pulsione di morte, è il principio del piacere, di Eros, la pulsione alla vita. Platone avrebbe detto: contro il cavallo nero che ci trascina verso il basso, c’è il cavallo bianco che ci spinge verso l’alto. E, in mezzo, sta l’auriga, che tenta di tenere in equilibrio il carro, con quel po’ di ragione, saggezza, discernimento che ci è consentito. E questo in tutti gli ambiti nella nostra vita. A maggior ragione nei rapporti con gli altri, in cui la realtà si incarna nel suo volto più difficile ma anche più bello. Quegli altri che – alle volte – i nostri desideri, le nostre pulsioni, i nostri bisogni vorrebbero soggiogare o anche solo modificare, magari in nome di un “di più”. Eppure, poi, se ci fermiamo anche solo un secondo a riflettere, ci accorgiamo e sappiamo bene che, “in realtà” li amiamo proprio perché sono “così”. Amiamo la loro “realtà” prima e più che la nostra possibilità.
Forse, allora, che davvero la realtà (dell’amore) sia più in alto della possibilità?
Università degli studi di Bari
Facoltà Teologica Pugliese – Molfetta