
30 Gen L’arte è un dono semplice
L’arte è la capacità data agli uomini di poter esprimere in un livello poetico un’idea o un contenuto e di declinarlo in una complessità costituita da forme, suoni, ritmi, prospettive, proporzioni. Quando un artista decide di realizzare un’opera la prima cosa che fa è chiedersi: cosa voglio realizzare? E cosa vorrei comunicare con essa? Tutti gli esseri viventi fanno arte: le api sembrano danzare quando si poggiano sui fiori, gli uccelli sembrano veri e propri soprani d’opera quando cantano, per non parlare del capolavoro che sono le ragnatele costruite dai ragni. Tutta la creazione è un’opera d’arte pensata: dai grandi orizzonti fino ai minimi dettagli, secondo una logica coerente e funzionale. Nell’ordine del creato, tuttavia, solo l’essere umano ha la consapevolezza di fare arte. Mentre tutti gli altri viventi sono artisti senza che lo sappiano, solo l’uomo ha il dono del sapere di farla.
L’arte è, di per sé, un dono semplice: è una capacità tecnica che sfrutta elementi naturali messi già a disposizione dell’artista perché esso possa – attraverso l’uso sapiente della scienza – metterli in relazione perché possano dare forma ad una realtà pensata e finalmente realizzata. L’artista non è un creatore, egli non crea dal nulla, ma si serve di beni che gli sono concessi affinché la sua intelligenza e la sua sensibilità possano fargli dire qualcosa di nuovo. L’artista si muove pensando e provando, cercando e scartando fin quando non trova la soluzione che secondo lui funziona al meglio per dire ciò che porta dentro di sé. Il legame è ciò che porta avanti l’opera. Nell’arte, infatti, vi è anzitutto un legame tecnico: si dice che un’opera “funziona” quando al suo interno si trovano citati elementi che richiamano continuamente quel nucleo fondamentale che l’ha generata (si pensi, ad esempio, al primo tempo della V Sinfonia di Beethoven, dove tutto il discorso musicale si sviluppa a partire da un disegno tematico di un intervallo di terza discendente). Questo tipo di approccio è quello ad intra, nel senso che giustifica un lavoro in se stesso e trova la sua forza in questo nucleo generativo. Vi è, tuttavia, un altro tipo di legame ancora più profondo, ossia quello che lega l’artista alla sua opera e che chiamerei legame affettivo: è la relazione dell’autore con il proprio operato, con le motivazioni che l’hanno messo all’opera e gli hanno dato idee, colori, temi, armonie. Nella storia dell’arte questo tipo di legame è individuato come vocazione: è il momento che sfugge alla ragione e che tocca le corde del cuore di una persona, l’attimo in cui una creatura si sente chiamata ad andare (la vocazione, infatti, anche dal punto di vista biblico, non è il momento in cui Dio dice ad una persona di restare, ma di muoversi e di lavorare per lui). Questo secondo modo di vedere l’arte è ad extra: il lavoro non è più solo fine a se stesso, ma si riferisce a qualcosa che lo trascende. L’artista non cerca la giustificazione della propria esistenza solo all’interno della sua opera, ma soprattutto nel rapporto con ciò che vi è accanto. Purtroppo, nel XX secolo si sono verificate situazioni di questo genere: la crisi del pensiero e l’aver tolto di mezzo la presenza di Dio dalla vita dell’uomo hanno fatto sì che l’arte fosse intesa come un mero artigianato che avrebbe dovuto trovare in se stesso la propria virtù. La presenza di ogni singola nota in un brano musicale doveva trovare ragion d’esserci; ogni singola sfumatura in un affresco doveva mostrare di non essere lì per caso, ma sempre in relazione con il pensiero che l’aveva messa in luce. Non avveniva così nel passato, dove sembra, infatti, che gli artisti abbiano sprecato il materiale: con quello usato da Mozart per scrivere una sonata, oggi i compositori ne avrebbero scritte almeno tre; il ciclo pittorico di Giotto in una sola chiesa, oggi avrebbe saziato la fame d’arte di un’intera nazione. Nel passato il legame tra pensiero, arte figurativa e musica era evidentissimo: la forma architettonica di una chiesa, ad esempio, esprimeva il pensiero teologico che c’era dietro e il suo spazio era perfetto per il genere musicale ad esso contemporaneo; oggi risulterebbe impossibile eseguire un mottetto rinascimentale in una chiesa contemporanea, poiché il cemento armato respinge la musica facendola rimbalzare. La pietra viva, invece, era il materiale giusto per far risuonare la Parola. Credo che la povertà artistica davanti alla quale ci troviamo oggi sia all’origine di una povertà di fede. Abbiamo chiese millenarie sopravvissute a terremoti e chiese cinquantenarie che stanno cadendo a pezzi. I nostri avi non erano certo più ricchi di noi per poter impiegare materiali pregiati, ma si trattava di cercare quel legame con la nostra storia, con la nostra fede, con la nostra vocazione che ha reso quell’arte immortale. La stessa cura e lo stesso ingegno, renderebbero immortale anche l’arte di oggi. Guardando a quel passato che, nella sua grandezza, forse ci imbarazza, dobbiamo essere in grado di “creare” con l’animo di chi vuole fare qualcosa di grande per Dio e per gli uomini.
Questa è la dimensione ministeriale dell’arte: un legame tra Dio e la Chiesa. Mentre gli uomini, che sono artisti, lodano il loro Salvatore, si edificano come Chiesa, e nella Chiesa stessa risuona uno spazio di amore come dono perfetto gradito a Dio.
Arcidiocesi di Taranto