
12 Feb Non c’è gioia maggiore…
«Dal momento che siamo fatti per amare, sappiamo che non esiste gioia maggiore che nel condividere un bene: “Regala e accetta regali, e divertiti” (Sir 14,16). Le gioie più intense della vita nascono quando si può procurare la felicità degli altri, in un anticipo del Cielo. Va ricordata la felice scena del film Il pranzo di Babette, dove la generosa cuoca riceve un abbraccio riconoscente e un elogio: “Come delizierai gli angeli!”. È dolce e consolante la gioia che deriva dal procurare diletto agli altri, di vederli godere. Tale gioia, effetto dell’amore fraterno, non è quella della vanità di chi guarda se stesso, ma quella di chi ama e si compiace del bene dell’amato, che si riversa nell’altro e diventa fecondo in lui».
Il film citato da papa Francesco nell’esortazione apostolica Amoris laetitia ci descrive un’esperienza surreale. Babette, una giovane cuoca francese, per ringraziare le donne per cui ha lavorato e tutte le persone che l’hanno aiutata nel periodo del suo servizio, organizza un pranzo per il quale spende tutti i suoi averi. Gratitudine e amore hanno come sbocco ineludibile un dono strabordante.
Ma il dono non è soltanto questione di film. In un saggio dal titolo Essai sur le don, l’antropologo e sociologo M. Mauss afferma, in una minuziosa analisi storica ed etnologica, che il dono sarebbe la base per relazioni sane all’interno di una comunità e per la creazione di un sistema sociale stabile. Donare, pertanto, vorrebbe dire primariamente creare una relazione con l’altro.
Senza andare molto lontano nel tempo, fino a fine ‘800/inizi ‘900 era diffusa in Sardegna una pratica chiamata “parradura”: qualora una malattia o un evento procurato dall’uomo avesse colpito il gregge di uno dei pastori della comunità, tutti gli altri avrebbero dovuto portargli in dono una pecora giovane, in modo che il pastore malcapitato potesse crearsi un nuovo gregge. Così facendo, ogni membro della comunità “firmava un’assicurazione” per eventuali danni futuri fondata sulla capacità di dono dei suoi conterranei.
Prendendo in prestito le parole di Adorno, potremmo dire che «la vera felicità del dono è tutta nell’immaginazione della felicità del destinatario: e ciò significa scegliere, impiegare tempo, uscire dai propri binari, pensare l’altro come un soggetto».
Anche la Bibbia ci mostra una serie di norme, contenute nei testi della prima alleanza, che molto somigliano agli esempi precedentemente riportati.
Creare relazioni, mantenere stabile il tessuto sociale, assicurarsi il soccorso degli altri: il dono ha sicuramente un valore enorme per ogni uomo in ogni tempo.
Ma nel dono di Cristo abbiamo un esempio che va ben oltre gli aspetti relazionali o economici. Le sue parole e la sua vita hanno testimoniato che donare non solo nutre le relazioni umane, ma è il canale unico e privilegiato perché l’uomo giunga alla salvezza, alla pienezza della vita. Nel suo testamento, mentre si preparava al dono di sé sul legno della croce, Gesù fece del dono d’amore l’unico comandamento della sua intensa predicazione: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» (Gv 15,12-14). Alla sequela del rabbì di Nazareth, allora, potremmo riassumere tre “nuove” caratteristiche del dono:
Donare è rinunciare: non è questione di calcolo; non si tratta – come per i pastori sardi della “parradura” – di assicurarsi un aiuto in caso di bisogno, ma di essere pronti a rinunciare a se stessi, anche alla propria esistenza, perché il fratello possa trovare la sua vita e fiorire.
Donare è riscoprirsi uniti gli uni agli altri: la pandemia – lo ha ricordato papa Francesco nel momento straordinario di preghiera del 27 marzo 2020 – ci ha dimostrato che nessuno si salva da solo, che siamo tutti connessi e che solo tessendo una fitta rete di solidarietà e attenzione ai fratelli si possono sconfiggere anche i nemici più insidiosi.
Donare è vivere la gratuità: Gesù non dona per ricevere qualcosa in cambio, dona per donare e, solo così, salva l’uomo. Scrive E. Bianchi: «Per entrare nella “danza del dono” occorre dunque non la risposta del contraccambio quando si riceve, ma il donare a propria volta. Così la gratuità non è spezzata ma potenziata, perché il donatore nel compiere il gesto del dare deve aprirsi alla fiducia, accettare l’incertezza sull’accoglienza del dono, senza pensare al proprio tornaconto».
Roberto Massaro
Direttore CDV Diocesi di Conversano – Monopoli
Docente Facoltà Teologica Pugliese