Qualcosa stava per accadere

Qualcosa stava per accadere

«Qualcosa stava per accadere»

Imparare a sognare con Marc Chagall

«Bambino, ti osservavo dalla nostra soglia, puerile. Apparivi chiara, agli occhi infantili. Quando lo steccato me lo impediva, montavo su un piccolo paracarro. Se neppure così riuscivo a vederti, salivo fin sul tetto. Perché no? Anche mio nonno ci saliva. E ti contemplavo a sazietà. Qui, nella via Pokrovskaja, io nacqui per la seconda volta» (M. Chagall, La mia vita).

È con queste parole, tratte dalla sua autobiografia, che Marc Chagall racconta di sé dinanzi al suo villaggio natale, Vitebsk in Bielorussia. A scrivere è un uomo, poco più che trentenne, ormai artista provetto, che ritorna al luogo e al tempo in cui sente di essere nato «per la seconda volta». E trova il momento in cui, bambino, fermo sull’uscio di casa, sgrana gli occhi sul suo mondo. Volendo continuare a farci suggestionare dalla parola «sogno», chiediamo a Chagall il segreto della sua capacità di rendere onirica la sua pittura, svelando così il mondo interiore di ogni uomo grazie a soggetti, forme e colori eccezionali e memorabili.

Alla scuola di Chagall potremmo imparare, ad esempio, che il sogno autentico non è quello che ci allontana dalla realtà. Non è quello di chi si crea mondi altri perché incapace di reggere la visione di questo mondo. Riprendendo il suo racconto iniziale, è bello vedere questo bimbo ingegnarsi per ottenere un punto di vista che sia libero da ostacoli: guarda il suo villaggio prima dalla soglia di casa, poi dal paracarro, quindi dall’alto del tetto. Da lì, il vedere diviene contemplare, perché capace di abbracciare la realtà senza limiti, nella sua misteriosa totalità. Ecco, il sogno è anzitutto uno sguardo profondo sulla vita, uno sguardo contemplativo su di essa, uno sguardo ampio e libero dalle costrizioni dell’immediato.

Alla scuola di Chagall potremmo imparare anche che il sogno è la vita guardata da un punto di vista interiore, angolo di visuale che apre a connessioni solo apparentemente illogiche: nelle sue opere, capre gialle suonano il violino, le case sono blu, gli uomini camminano a testa in giù e la donna amata vola nel cielo. Per l’artista e per chi si lascia solleticare dal suo gioco, queste connessioni sono assolutamente sensate, perché rispondono ad una logica differente, che è una logica affettiva. Scrutando a mo’ d’esempio l’opera «Il Cantico dei Cantici III» (1960), ci affacciamo sul mondo interiore di Chagall: al centro c’è Gerusalemme, rappresentata con l’unione di due città speculari: in alto, Vence il paese francese che lo accolse e in cui morì; in basso, il villaggio natale di Vitebsk, da cui andò via esule. La maternità della Città santa è raccontata anche con le forme curve dei seni e del grembo di una donna. E, ancora, l’amore per Gerusalemme è visualizzato nella coppia di sposi che fluttua in cielo sotto una chuppah, la tenda rituale ebraica. Sotto la dominanza del rosso, l’opera racconta l’amore ritrovato di Marc per Vava, la donna sposata in seconde nozze dopo aver perso improvvisamente Bella. Il sogno dell’artista è la narrazione di una storia interiore e personale, che per mezzo dell’arte diventa pubblica e universale, fino a intrecciarsi con il sogno di Dio per l’umanità.

Alla scuola di Chagall potremmo imparare ancora che il sogno serve per comprendere il male e dargli una cornice e un contesto, in cui è possibile coglierne, se non il senso, almeno la sua nobile e faticosa bellezza. Il nostro artista sognatore ha conosciuto il dolore in diverse forme: un parto difficile, l’esilio dalla Russia sovietica, gli orrori della guerra mondiale, le sofferenze del popolo ebraico, la morte di Bella. Nelle sue opere sono numerose le case incendiate, gli ebrei erranti col sacco sulle spalle, gli angeli che cadono, i crocifissi… Eppure sembra che anche la sola possibilità di raccontare il male sia redentiva. Raccontare il male in una storia più ampia in qualche modo lo delimita. Esplicitarlo dentro la dinamica della vita lo rende in un certo senso vivibile.

Alla scuola di Chagall potremmo imparare infine che il sogno è la possibilità di trovare il nostro angolo nel mondo, quello che ci permette di individuarci. In tante sue opere, Chagall rappresenta se stesso con tavolozza e pennelli (anche nella nostra, nell’angolo in alto a sinistra), intento a guardare la scena che sta rappresentando. È un punto in cui il pittore vede se stesso dipingere e il musicista ascolta la sua musica. È il punto di vista di Dio, che guarda senza ostacoli e in profondità, che crea nessi tra le cose secondo un’altra logica che non sia quella razionale, che guarda anche il male nell’amore, trasfigurandolo. Quell’angolo di mondo da cui guardare la vita e in cui realizzare il compito irripetibile della propria esistenza è la nostra «vocazione».

Scrive ancora Chagall nella sua autobiografia: «Un bel giorno (ma tutti i giorni sono belli), mentre mia madre stava mettendo il pane in forno, mi avvicinai a lei che teneva la paletta e afferrandola per il gomito infarinato le dissi: Mamma… vorrei fare il pittore. È finita, non posso più fare il commesso né il contabile. Basta. Non ho sentito invano che qualcosa stava per accadere. Lo vedi tu stessa, mamma. Sono forse un uomo come gli altri? Cosa so fare? Vorrei essere un pittore».

Che ciascuno di noi possa sognare con Dio il proprio piccolo angolo di tela, sentendo davvero che qualcosa stava per accadere. E non è invano!

don Eugenio Bruno

Officiale presso il Pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione