
15 Mag Vedi, tutto può crollare qui!
“Vedi, tutto può crollare qui”.
Questo verso di Chandra Livia Candiani è tremendo. Cinque parole soltanto per dire di quello che nessuno vorrebbe conoscere eppure tutti conosciamo: il terrore del terreno che trema. Terreno fisico, economico, materiale, ma anche immateriale, psichico, spirituale.
E’ forse persino più straziante del “tutto è crollato”.
La sensazione acuta che rischia di esser cronica: percepirsi in pericolo, come un animale braccato da altri animali.
L’assenza di custodia è il cuore di ogni nostro terrore: che sia una malattia o un abbandono d’amicizia o d’amore, o la perdita di un lavoro o di senso, quale che sia l’unità di misura o la grandezza, tutta l’angoscia, tutta la rabbia che come umane bestie conosciamo è tutta qui. Non sentirci custoditi. Assenza di riparo, come dentro una valle oscura o, che è uguale, come al centro di un assolatissimo deserto senza ombre e senza case, a tutti i venti esposti, a tutte le visioni e a tutti i giudizi consegnati.
E allora cerchiamo, cerchiamo, tutta la vita cerchiamo protezioni, custodie, coperte: qualcuno in una relazione, qualcuno in una professione, qualcun altro, persino, in una fede che non è conversione ma il suo opposto, la mummificazione.
L’elenco di buone azioni compiute come rito propiziatorio è il patrimonio del giovane ricco. Sgamato nella sua logica binaria dove il dare corrisponde a ricevere, il guadagno alla presa. Gesù gli svela il paradosso di tutto quella illusione di custodia, di quel pensare di accumulare un tesoro che in realtà anziché riempire, svuota: il giovane ricco è il più povero di tutti, povero non come nella nudità scelta – che è quella Sua, di quando nasce in una stalla e di quando muore su una croce -ma povero come il fariseo che in prima fila punta il dito sulla impurità degli altri per sentirsi salvo, al sicuro, senza accorgersi d’essere proprio lui quello a cui manca terreno eterno sotto i piedi.
Cosa cerchiamo, cosa cerchiamo quando accumuliamo garanzie?
Cerchiamo tutti riparo.
E quando siamo noi a doverlo offrire – a figli, innamorati, cause, ideali – pensiamo che custodire significhi sottrarre al pericolo, come se proteggere equivalesse a togliere dalla vita.
In che modo ci custodisce invece Nostro Signore?
In un particolare modo dove la custodia non corrisponde al possesso del risultato finale.
Neppure Maria sapeva prima. L’angelo le annuncia un avvento, non un avvenuto. Non le predice il futuro, non le dice che “andrà tutto bene”. Non la custodisce nel senso di scamparla al crollare.
Lei non sa: dice sì alla più clamorosa assenza di custodia della storia. Non sa che la chiamata è alla morte di un figlio, alla morte di un dio, a tre giorni nei quali tutto sembrerà perduto.
Tutto è perduto.
Puoi attraversare questa notte e questo deserto per incontrare la mia custodia, oltre le tue misure, oltre le tue grandezze?
Così sembra dire Dio anche a Giobbe.
La Sua custodia non è una assicurazione sulla vita. Un lancio, piuttosto. Nel braciere dove la pietra sarà levigata, la materia grezza diventerà oro.
Custodia, riparo non stanziale ma esodo ininterrotto: eccolo, quel “non avrai dove posare il capo”.
Perché? Per mettere alla prova la nostra capacità di “sacrificio”?
No, essere da Lui custoditi non è un premio che viene consegnato alla bambina brava, al bambino che ha fatto tutti i compiti.
Non avrai dove posare il capo perché il tuo nido, la tua casa, sarà ovunque, nella valle oscura, nel deserto: il riparo e la riparazione non saranno una mutazione negli eventi esteriori ma la mutazione nei posizionamenti interiori.
Il cielo è in una stanza: la nostra vicenda interiore, intima e insieme politica, perché raccorda il sì interiore quotidiano che scegliamo non sapendo ma mai smettendo di pensarlo e amarlo, con la presenza nella storia, nelle storie nelle quali quel sì rende proprio i deserti i luoghi eletti per la fioritura.
Lasciarci custodire significa stare così, incastonati, radicati, come sigillo sul Suo braccio: ogni attimo dentro l’eternità, così il primo umano bisogno, che nella letteratura psicologica corrisponde alla “base sicura”, è appagato e… cosa accade, ci dice la ricerca scientifica, quando una identità è salda e non deve più elemosinare ovunque protezioni, e dunque dipendenze?
Chi ha una base sicura esplora.
Il modus interiore dell’esplorazione equivale a stare nella vita senza l’arroganza del creditore e pure senza la mortificazione del debitore: tutti i conti per noi sono già stati pagati, non c’è più registro che compara entrate e uscite, attaccarsi alla seduzione del merito è tema di potere: la gratuità è resa del bisogno di ragionieria spirituale.
La sua custodia non ingabbia ma libera. Come utero vitale perchè spinge, non solo contiene: custodito è chi è stato gratuitamente nutrito e per questo è uscito, uscito per nutrire, uscito per custodire. Uscito da sé, uscito dal bisogno, uscito dal vuoto del pieno. Continuamente esposto a un sì che non è mai acritico, ma sempre ricerca, interrogazione, esplorazione.
Come è la custodia di Nostro Signore?
Custodia è il nome del sacro e sacro è ciò che è e resta mistero: cioè? Non posseduto.
Custodire senza possedere.
Offrire riparo senza allacciare.
Custodire, non consumare.
Non fare di tutto merce, anche delle cose dell’anima e dello spirito e che ci mandiamo sui cellulati, ridotti anche quelli a prodotti da fagocitare, che si ci emozionano all’istante ma poi con altrettanta velocità evaporano e allora ne vogliamo ancora e ancora… e stiamo persino nelle cose di Dio con la stessa forma con cui l’ ubriaco sta con le bottiglie di vino: dipendenti, non innamorati.
Custodia, sì, questione di castità. Perché: “vedi, tutto può crollare qui”, e però io so che mentre crollerà potremo dire grazie per quello che è stato e imparare a dire grazie al nuovo che sta sempre per avvenire. La salvezza è già qui, adesso, mentre crollo persino.
Così morire e resuscitare diventa lo schema meta-temporale con cui leggere non soltanto il gran finale ma ogni fiato: allora anche nel deserto e al buio l’anima è al riparo, il senso è saldo, l’identità in perpetua missione.
E così, custodito e contemporaneamente da Lui stesso scelto per custodirLo, potrò dire:
“Ho smesso di reggere i muri
donandomi ai crolli.”
(Franca Mancinelli).
E per questo, per questo miracolo di custodia eterna che sperimento già vivendo, e persino crollando, l’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore.
Chiara Scardicchio, phd
Pedagogia Generale e Sociale,
D.E.T.O. Medicina, Università degli Studi di Bari